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Assumere regolarmente integratori di Omega-3 ricavati da olio di pesce per proteggere cuore e arterie? L’idea, nelle persone sane, non sembra essere delle migliori. Uno studio a lungo termine del Dipartimento di Epidemiologia della Sun Yat-Sen Guangzhou University (Cina) pubblicato sulla rivista open access Bmj Medicine, avanza infatti un distinguo importante: "L'uso regolare di integratori di olio di pesce potrebbe aumentare, anziché diminuire, il rischio di malattie cardiache e ictus tra coloro che godono di una buona salute cardiovascolare, ma potrebbe rallentare la progressione di problemi cardiovascolari esistenti e ridurre il rischio di morte" in chi ne soffre. Poi, mani avanti e necessità dichiarata di nuove indagini e nuovi approfondimenti, ma tant’è, meglio saperlo.  
La ricerca, che ha avuto anche il sostegno della Bill and Melinda Gates Foundation, ha considerato 415.737 persone appartenenti all'Uk Biobank study, comprese tra i 40 e i 69 anni e al 55% donne. Le interviste, datate 2006-2010, hanno riguardato sia il consumo di pesce ad alto contenuto di grassi sia il consumo di integratori a base di olio di pesce, con il 31,5% degli intervistati (130.365 persone) che ha risposto affermativamente a entrambe le domande. Il follow-up, durato fino alla primavera del 2021 - considerato che del gruppo degli “affermativi” facevano parte "percentuali più alte di anziani, bianchi e donne. Anche il consumo di alcol e il rapporto tra pesce grasso e non grasso consumato erano maggiori, mentre erano inferiori le quote di fumatori attuali e di persone residenti in aree svantaggiate" – ha dato risultati eclatanti: durante i 12 anni dello studio, infatti, 18.367 partecipanti hanno sviluppato fibrillazione atriale, 22.636 un infarto/ictus o insufficienza cardiaca, e 22.140 sono morti, 14.902 dei quali senza manifestare fibrillazione atriale o altre gravi malattie cardiovascolari. Tra chi era sano e ha manifestato fibrillazione atriale, 3.085 hanno sviluppato insufficienza cardiaca, 1.180 un ictus e 1.415 un infarto. Tra chi aveva insufficienza cardiaca, 2.436 sono morti, come 2.088 fra chi aveva avuto un ictus e 2.098 degli infartuati.
"Per coloro che non presentavano patologie cardiovascolari note all'inizio del periodo di monitoraggio, l'utilizzo regolare di integratori di olio di pesce era associato a un +13% del rischio di sviluppare fibrillazione atriale e a un +5% del rischio di ictus _ si legge nello studio - Ma tra chi aveva malattie cardiovascolari all'inizio del periodo di monitoraggio, l'uso regolare di integratori di olio di pesce era associato a un -15% del rischio di progredire dalla fibrillazione atriale all'infarto e a un -9% del rischio di passare dall'insufficienza cardiaca alla morte".
Con una precisazione d’obbligo: "Ulteriori analisi approfondite – scrivono ancora gli studiosi - hanno mostrato che età, sesso, fumo, consumo di pesce non grasso, ipertensione, uso di statine e di farmaci conto la pressione alta hanno modificato le associazioni osservate". Cioè, "l'uso regolare di integratori di olio di pesce e il rischio di passare da una buona salute a infarto, ictus o insufficienza cardiaca erano del 6% più alti nelle donne e nei non fumatori", mentre "l'effetto protettivo di questi supplementi sul passaggio da uno stato di buona salute alla morte è stato maggiore negli uomini (rischio ridotto del 7%) e nei più anziani (rischio ridotto dell'11%)".
Infine, i distinguo di cui sopra: “Trattandosi di uno studio osservazionale non appare possibile trarre conclusioni sui fattori causali – si legge - Inoltre, non erano disponibili informazioni sulla dose né sulla formulazione degli integratori di olio di pesce". Ancora: "Dato che la maggior parte dei partecipanti (allo studio, ndr.) erano bianchi, i risultati potrebbero non essere applicabili ad appartenenti ad etnie differenti".
Del resto già in passato una ricerca – “ChiudiUno”, studio sperimentale dell’Università di Granada condotto però su topi di laboratorio – aveva segnalato possibili rischi a lungo termine del consumo di oli di pesce (e di olio di girasole), ritenuti responsabili dell’aumento di rischio di sviluppare la steatoepatite non alcolica, una sindrome provocata dall’accumulo di grasso nel fegato. La patologia, che può portare a fibrosi dei tessuti e conseguenti gravi danni alla funzionalità epatica, risulta in aumento nei Paesi occidentali, e viene in genere attribuita a un eccesso di consumo di grassi.

Alessandra Rozzi
Redazione Respiro.News

 

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