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I cento anni dell’uomo che ha svelato i segreti del cuore s’intrecciano con la storia della cardiologia in Italia e la Milano del Novecento. Quando nasce il medico Fausto Rovelli, il 10 novembre 1918, in casa com’è consuetudine a quei tempi, lì in un piccolo appartamento di via San Maurillio, la Grande Guerra è finita da pochi giorni. Il papà impiegato al Comune di Milano, la mamma maestra elementare alla Chiesa Rossa, Rovelli cresce con le canzoni degli Alpini («Il Piave mormorava … sul cappello che noi portiamo c’è una lunga penna nera»), nella Milano in cui il compagno di banco è Bruno Mussolini figlio di Benito, lo stadio è all’Arena e l’Inter si chiama Ambrosiana, il liceo Parini si trova in via Fatebenefratelli dove il Naviglio scorre ancora all’aperto, il mare è l’Idroscalo i cui lavori iniziano nel 1927 nelle campagne non lontano dalla città e la Fiera Campionaria verrà inaugurata il 12 aprile del 1928.Fin da ragazzo, tra una partita a rugby e la passione dell’alpinismo, lo affascina la figura del medico condotto come gli appare dalla lettura di alcuni libri. L’ultimo esame prima della laurea in Medicina — il 6 luglio 1943 — si tiene mentre suonano le sirene per un’incursione aerea. Dopo la fine dell’università, senza neppure un giorno di vacanza, Rovelli inizia il mestiere all’Istituto di Patologia medica del Policlinico.

Negli anni Cinquanta, la svolta: la specializzazione in Cardiologia e l’incontro con la futura moglie Adele, crocerossina che frequenta l’ospedale e con cui fa il viaggio di nozze in Cinquecento fino a Salisburgo. Rovelli si ritroverà a essere il pioniere delle cure contro l’infarto: all’inizio degli anni Ottanta la sua intuizione è di utilizzare il più presto possibile un farmaco in grado di sciogliere il trombo (la cui formazione all’interno dei vasi che portano sangue al cuore determina l’infarto); in questo modo, oltre che intervenire sulle conseguenze (le aritmie, l’arresto, lo scompenso) si può agire sulla causa dell’infarto, limitandone il danno al cuore. Ciò sfocia in uno studio che coinvolge 12 mila pazienti in tutta Italia e viene riconosciuto a livello internazionale come una delle pietre miliari nella storia della cardiologia (il suo nome è «Gissi», per indicare il Gruppo italiano per lo studio della streptochinasi nell’infarto).Insomma, «Cent’anni vissuti con il cuore», come dice il titolo dell’incontro di oggi con cui il Cardio Center De Gasperis dell’ospedale di Niguarda, di cui Rovelli è fondatore, ne celebra il centesimo anniversario. In occasione del compleanno il medico ripercorre la sua vita nell’appartamento di via Quadronno, in partenza per la casa di campagna a Daverio (Varese), su un terreno acquistato tra i boschi e prati all’inizio degli anni Settanta, poi diventata crocevia di primari e rettori per discutere di politica sanitaria. «Ormai non lavoro più da 30 anni — dice il medico — ma il De Gasperis è sempre nei miei pensieri».

È il padiglione del Niguarda, teatro durante la sua lunga carriera di un’infinità di primati sugli interventi in circolazione extracorporea (1956), pace maker (’61), protesi valvolari (’63) trapianto cardiaco (’85), impianto di cuore artificiale (’87). «Ma mi raccomando — insiste Rovelli —, nessuna enfasi». Spiega Maria Frigerio, sua allieva e alla guida del reparto di Insufficienza cardiaca e Trapianti: «Ai tempi in cui è nato il De Gasperis, la cardiologia era soltanto una modesta “costola” della medicina interna. È allora che Fausto Rovelli ha l’intuizione di agganciare lo sviluppo della cardiologia a quello della cardiochirurgia (che a sua volta era un segmento della chirurgia toracica), creando di fatto il prototipo del dipartimento del cuore». Oggi per leggere il professore usa la lente di ingrandimento, ma ha sempre guardato lontano.

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