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Perché fiorire si può e si deve, anche in mezzo al deserto, perché se le cose fragili come un fiore di ginestra lo sanno fare, anche noi siamo chiamati a fare altrettanto" 

E' una poesia di Giacomo Leopardi intitolata “La Ginestra” a dircelo. Uno tzunami ha sconvolto le nostre vite e lo ha fatto nella maniera più democratica possibile. Nessuno è stato risparmiato.
In questo tempo non esiste individuo libero di affermare che la sua vita non sia stata scalfita da questo nemico chiamato SARSCoV-2 o, più comunemente, coronavirus. Dopo due mesi di lockdown ora l’Italia sta provando a ripartire. Una domanda però rimane come un rumore di fondo nelle nostre vite: ci sarà una seconda ondata? Gli esperti sono divisi: chi si sbilancia dicendo che non ci sarà, chi parla di una riduzione dell’aggressività del virus o di una sua potenziale scomparsa e chi ancora profetizza un ritorno in autunno in stile influenza.Quel che è certo, ad oggi, è che il virus non è scomparso e il numero di contagiati ne è la conferma. Possiamo dire che la pandemia in corso ci ha mostrato due lati di una stessa medaglia. Infatti, se da un lato ha messo in evidenza le fragilità di un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che, con difficoltà, ha saputo gestire un’emergenza di queste dimensioni, per mancanza di posti letto, di apparecchiature, di risorse e di personale, dall’altro ha evidenziato la prontezza di riflessi di una comunità scientifica che si è trovata ad affrontare un nemico del tutto sconosciuto ma che, in soli quattro mesi è riuscita ad avere un quadro sempre più chiaro, anche se non completo, del nemico che aveva di fronte. E che cosa ha scoperto?
Innanzitutto che nei malati più gravi si innesca una risposta infiammatoria ab-norme che gli addetti ai lavori chiamano “tempesta citochinica”.
In un secondo tempo i clinici hanno osservato che questa eccessiva infiammazione, a livello polmonare, provoca la formazione di trombi in altri distretti corporei quali cervello, reni e cuore. Sulla base di queste osservazioni sono tuttora impiegati nel trattamento dell’infezione da coronavirus, farmaci antinfiammatori e anticoagulanti. Ha poi preso piede la terapia basata sull’impiego di plasma iperimmune, a partire dall’esperienza maturata nella gestione di infezioni passate. Il plasma di pazienti guariti, ricco di anticorpi sviluppati in seguito al contatto con il virus, viene iniettato in soggetti affetti da COVID-19 e i risultati di questo approccio terapeutico sono stati senz’altro positivi anche se si tratta di una strada che richiede certe cautele. Dallo studio della struttura del virus i ricercatori hanno provato anche a utilizzare farmaci antivirali. Nelle scorse settimane l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha accolto con favore i risultati emersi dai primi studi clinici condotti in Gran Bretagna sul desametasone, un farmaco anti infiammatorio capace di ridurre la mortalità in pazienti con forme gravi di infezione, in particolare, in quelli che richiedono supporto di ossigeno. Questo ha portato all’avvio di centinaia di studi clinici, condotti in tutto il mondo, finalizzati alla scoperta di farmaci e vaccini efficaci ma tutto ciò richiede molto tempo.
Ora ripartire non è facile e gli effetti, di varia natura, economica, sociale e psicologica, sono variegati e numerosi.
Non li abbiamo visti ancora tutti e solo fra anni potremo capire l’impatto che questa pandemia ha avuto sulle nostre vite. Certamente non trascurabili sono gli effetti psicologici riconducibili al periodo di quarantena. Innanzitutto l’aumento di depressione e ansia. La comunità scientifica lancia l’allarme segnalando, negli ultimi due mesi, un sensibile aumento dei sintomi depressivi nella popolazione generale. Ad alimentarli certamente hanno contribuito fattori come i lutti, la solitudine, il distanziamento sociale e la paura del contagio tutti aspetti legati all’emergenza sanitaria in corso.
Gli esperti prevedono un aggravamento dei sintomi legato all’imminente crisi economica le cui conseguenze saranno realmente tangibili solo fra qualche mese. I numeri dicono che basso reddito, dovuto alla perdita
o diminuzione del lavoro, e aumento della disoccupazione determineranno un rischio di 2-3 volte superiore di ammalarsi di depressione. Senza contare poi il trauma di chi ha subito la perdita di una persona cara a causa della pandemia.
Vi è poi quella che è stata denominata “La sindrome della capanna”, cabin fever in inglese. Uno stato d’animo che spinge l’individuo a rimanere al sicuro nel proprio rifugio evitando il confronto con il mondo esterno. Sono state proprio la chiusura delle scuole e la nuova modalità di lavoro da remoto detta smart working a portare al consolidamento di una nuova quotidianità costruita all’interno delle mura domestiche. I sintomi più frequenti della sindrome della capanna sono: episodi di irritabilità, tristezza, paura, angoscia, frustrazione; stato di letargia, stanchezza, percezione di malessere fisico, difficoltà di concentrazione e demotivazione. Non si tratta di un vero e proprio disturbo mentale, ma è certamente legato a una condizione prolungata di isolamento.
Ora siamo chiamati a guardare avanti e ad affrontare la sfida della ripartenza che non significa tornare alle vite di prima ma imparare a convivere con il virus costruendo nuovi equilibri e nuovi modelli di vita. Per farlo dobbiamo focalizzarci su ciò che è realmente importante per noi. Forse è stata proprio questa pandemia ad aiutarci a vedere con maggiore chiarezza quali sono i pilastri delle nostre esistenze. Ed è da lì che dobbiamo ripartire.

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Giornalista
Coordinamento di redazione rivista RESPIRO

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