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Negli ultimi tempi si parla frequentemente di una medicina che abbia al centro il paziente. Preferisco pensare a una medicina che abbia al centro la persona. Il paziente infatti è prima di tutto una persona con la sua storia personale, il suo vissuto, i suoi affetti e le sue paure. In questo processo, o meglio tentativo, di umanizzazione delle cure sorge spontanea una domanda: è giusto condividere la malattia o questa deve restare un fatto privato? Ovviamente non esiste un’unica risposta adeguata a tutte le situazioni. Si tratta di una scelta personale che deve essere sempre rispettata.

Recenti fatti di cronaca ci invitano a riflettere sull’argomento. Per farlo partiamo da tre storie.

La prima riguarda il Progetto Giovani dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano. Un progetto speciale, dal quale trapela un’umanità nuova di cui noi tutti sentiamo davvero il bisogno in un’epoca segnata dall’egoismo e dal narcisismo imperanti. Un progetto nato nelle corsie di un ospedale per dare voce ai ragazzi che qui sono ricoverati. Per dare loro l’opportunità di esprimersi e di manifestare ciò che pensano e sentono. Una rivoluzione culturale se si pensa che fino a dieci anni fa parlare di tumore era ancora un tabù e che le relazioni fra adolescenti colpiti da patologia tumorale erano fortemente sconsigliate e disincentivate. Grazie al Progetto Giovani questi confini sono stati abbattuti e ora i ragazzi hanno l’opportunità di raccontare se stessi attraverso varie iniziative quali canzoni e mostre. Ora arriva anche la serie web chiamata Tumorial di cui parliamo in questo numero della rivista. Un modo nuovo di condividere una grossa fatica dando così coraggio a chi deve intraprendere lo stesso doloroso percorso.

La seconda storia riguarda Nadia Toffa, giornalista e conduttrice televisiva della trasmissione Le Iene prematuramente scomparsa a causa di un tumore cerebrale. La sua vicenda umana ha fortemente scosso l’opinione pubblica che ha partecipato con trasporto al dolore per la sua perdita. La scomparsa di Nadia ha avuto una sorprendente risonanza mediatica. Certo, era un personaggio pubblico, ma non è solo per questo. Nadia aveva fatto una scelta coraggiosa: aveva deciso di condividere con il pubblico la sua malattia, suscitando polemiche e attacchi. C’è stato addirittura chi l’ha accusata di aver inventato il tumore per ottenere visibilità e attirare su di sé maggiore attenzione. Accuse dure che certo non avevano fatto bene alla giornalista che aveva risposto con l’onestà e la trasparenza che da sempre la contraddistinguevano. In ogni caso lei aveva scelto di parlare della sua malattia, di non nasconderla, di presentarsi in televisione dichiarando di avere in testa una parrucca. Non tutti hanno lo stesso coraggio e la stessa forza d’animo. Certo è però che il suo esempio è stato foriero di speranza e di conforto per tanti che trovandosi nella medesima situazione hanno saputo guardare a lei come a un guerriero che non si perde d’animo anche di fronte a un nemico così difficile da combattere. Non dimentichiamo poi che la generosità del suo cuore l’ha portata a realizzare grandi cose per i bambini di Taranto affetti da patologia tumorale.

La terza storia è quella di Mattia Torre, sceneggiatore, scrittore e regista prematuramente scomparso all’età di 47 anni a causa di tumore che aveva cercato di raccontare, con il sorriso, nel libro autobiografico La linea Verticale dal quale ha preso vita l’omonima serie televisiva trasmessa dalla RAI. Nel libro Mattia racconta la sua esperienza in ospedale con un’ironia elegante, mai banale, che aiuta a non piangersi addosso ma a cercare un punto di vista diverso. Il volume ci offre uno spaccato della vita in ospedale con un punto di vista privilegiato, quello del paziente. In una delle pagine si legge: “Ora ho nuovi desideri: voglio essere centrato, voglio stare in piedi, voglio vivere in asse su una linea verticale. Non voglio avere paura, perché la paura ti mangia e non serve a niente. Voglio pagare le tasse con gioia perché un ospedale pubblico mi ha salvato la vita senza chiedermi nulla in cambio. Voglio guardarmi intorno e voglio vivere tutto quello che è possibile, con generosità e vitalità. Questo tumore mi ha salvato la vita. Senza questo tumore, sarei senz’altro morto.”

In conclusione, le tre storie non hanno risposto al quesito iniziale. Non possiamo ancora dire se sia giusto vivere la malattia come fatto privato o se sia meglio condividerlo in maniera così audace. Ma le storie dei ragazzi dell’Istituto Nazionale Tumori, di Nadia e Mattia ci hanno insegnato certamente una posizione più umana, una modalità più coraggiosa di stare di fronte alla malattia. Per questo a loro diciamo GRAZIE

Chiara Finotti
Responsabile coordinamento di redazione di Respiro
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